PROEMIO
Proemio al vol. I dell'"Archivio Glottologico Italiano" 1 (1873)
Nota del curatore
Il testo elettronico del Proemio all'"Archivio Glottologico
Italiano" si riferisce all’edizione datane da ultimo da Corrado
Grassi, per i tipi di Einaudi (Torino, 1975), dopo le precedenti
del 1966 e 1968 (Torino, Giappichelli editore); esso deriva, con
qualche correzione, dal testo elettronico allestito nel 1999 da
Claudio Marazzini per il gruppo di ricerca Ci-Bit operante presso
la Facoltà di Lettere di Vercelli, nell'"Università del Piemonte
Orientale - Amedeo Avogadro". La nuova versione (gennaio 2003) è
stata approntata da Claudio Marazzini.
Si è utilizzata la divisione in sette sezioni introdotta da Grassi
(non presente nell'edizione nell'AGI 1873), ponendola entro
parentesi quadre, seguita dall'indicazione tra barre, in numero
arabo grassetto, delle pagine occupate dal brano nell'edizione di
riferimento. Entro barre, in grassetto, è stata introdotta anche
la paginazione romana orginale dell’AGI I, 1873 (pp. V-XLI).
Le parole latine in cui ricorrevano O/E con due segni diacritici
sovrapposti sono state rese sostituendo a uno dei due segni
diacritici l'indicazione esplicita distesa, entro quadra.
Sono state sostituiti con accenti gravi gli accenti acuti su i e
u, tipici dell'uso grafico dell'editore Einaudi (dunque presenti
nell'edizione di riferimento, ma non nell’AGI).
L’indicazione dei cambi di pagina non è stata mai posta a metà di
una parola, ma sempre prima di essa, quando la parola medesima
fosse spezzata tra due pagine. Si è scelto di fare così per non
rendere vane o difficoltose le eventuali ricerche lessicali
condotte mediante programmi di scrittura.
Le note di Ascoli (le uniche qui riportate, essendo state
tralasciate quelle esplicative del Grassi), originalmente
richiamate da asterischi, sono richiamate da numeri arabi
crescenti posti in esponente.
Non sono stati riprodotti i brevi cappelli introduttivi ai vari
paragrafi presenti nell’edizione di riferimento, che si devono
alla penna del curatore C.Grassi.
Claudio Marazzini
Torino, 1.1.2003
[1 - pp.6-10]
/6/ /V/ Un vocabolario che si viene stampando in Firenze sotto
auspicj gloriosissimi, rappresenta un principio, o un’innovazione,
di cui gli riesce far mostra nella prima parola del suo
frontispizio, poiché egli si annunzia per nòvo anziché nuovo, così
riproducendo la odierna pronuncia fiorentina, ch’egli trova urgente
di rendere comune a tutta l’Italia, siccome parte integrale
dell’odierno linguaggio di Firenze, il qual dev’essere, in tutto e
tutto, quello dell’Italia intiera. La medesima pronuncia fiorentina
gli suggerirà, ed egli dovrà accettare, sotto pena di non lieve
incoerenza: mòre per muore; sòla per suola; fòri per fuori; io nòto
per nuoto; io sòno per suono; còco per cuoco; òmini per uomini; e
via discorrendo. Ora, tutti conoscono, e nessun conosce meglio de’
promotori del Novo Vocabolario, l’intima ragione dell’uò che questi
tenta di sbandire. L’uò italiano, se per comodo de’ lettori qui si
vuol ripetere codesta ragione, è normale prodotto dell’o breve
latino quando porti l’accento, come ie è prodotto normale dell’e
breve latina accentata. Laonde avemmo: io muovo, allato a noi
moviàmo, nuovo, allato a rinnovare e novità, così come avemmo:
siède, allato a sedùto; piède, allato a pedàta. L’o lungo latino,
all’incontro, o l’e lunga latina, quando pur sieno in accento, ci
dànno sempre la /VI/ vocale scempia (e chiusa); quindi, per esempio:
vòce, amòre; séra, avére . E siccome la brevità o la /7/ lunghezza
della vocale latina /VII/ non proviene naturalmente da un capriccio,
o da una convenzione, del popolo de’ Quiriti, ma sì è un accidente
che ha le sue ragioni organiche e ancora si vede difilatamente
risalire a tale antichità, rispetto alla quale sono avvenimenti
moderni le storie più rimote; ne viene, che la distinzione che noi
abbiamo così perspicua e familiare, tra nuovo (NOVUS), a cagion
d’esempio, e lo (ILLORUM), dipende da varietà fondamentali che
rannodano, nel tempo e nello spazio, una grande e nobilissima parte
del genus homo; è insomma un fenomeno storico, il quale, connaturato
e saldo nell’uomo odierno, rivaleggia d’antichità col mondo fossile.
Se per ciò tra coloro che si affaticano intorno alla storia delle
lingue, surga qualche lamento contro il tentativo di menomare o di
abolire una tale distinzione, senza che alcun patente bisogno ci
spinga a manomettere il prezioso cimelio, e anzi risulti da questo
intento un danno manifesto /8/ anche nell’ordine pratico della
parola; se taluno di coloro, soverchiamente appassionato, trascenda
a scrivere, che il tentativo gli sembri addirittura un’offesa o una
sfida al moderno sapere; è abbastanza probabile, che anche prima che
si aggiunga alcun’altra considerazione, possa avere facile scusa, o
perdono, presso i più, lo zelo poco importuno di quei modesti
operaj. I quali, inoltre, per effetto del loro mestiere, vedono di
continuo, che qualche scarso sviluppo, od avanzo, dell’uo nel
provenzale, non toglie che questo particolar continuatore, o
succedaneo, dall’o latino, sia veramente il distintivo più cospicuo
della romanità italiana. L’uo degli scrittori fiorentini non
coincideva già soltanto con l’uo di Arezzo o d’altre terre
circonvicine, ma ritrovava se medesimo, a tacer dell’Italia
meridionale, in molta parte della superiore, come può vedersi anche
dai fogli che vanno qui uniti; e così riusciva di tanto più facile
che egli entrasse nelle scritture /VIII/ della penisola intiera. Il
dialetto (osano dire fra di loro due degli operaj di cui si parla,
illusi forse dalle loro esperienze continue), quando è diventato
lingua, aveva florida questa proprietà, e la mantenne o la immise in
ogni altra regione italiana, sì che, da più secoli, quanti italiani
o stranieri hanno conosciuto /9/ o creduto conoscere la lingua della
civiltà italiana, hanno sempre scritto ed anche pronunciato
quest’uo; oggi perciò la lingua, salda ed una almeno in questa
parte, deve naturalmente conservare l’importante carattere pur nel
nido onde è uscita, se pur la favella familiare ivi paja prossima a
smarrirlo. E l’importanza del carattere, sempre per quegli operaj,
sta anche in ciò, ch’esso abbia la parte più cospicua in quel
movimento grammaticale, intrinsecamente italiano, che consiste
nell’avvicendarsi di due diverse figure verbali secondo la sede
diversa che abbia l’accento; poiché ognuno conosce che l’alternarsi,
a cagion d’esempio, di muov- con mov-, in muòvo e moviàmo, dipende
da quello stesso principio pel quale è òdo (audio) accanto a udiàmo,
èsco allato a usciàmo, dévo allato a dobbiàmo. È una movenza, una
varietà regolata, che passa fra i pregi della parola neo-latina in
genere, e dell’italiana in ispecie. Dovremo noi credere, che un
grammatico ragionatore pensi ad abolire, o a menomare, in nome
dell’unità e del popolo, una proprietà del suo linguaggio, che sta
così salda, ed esce così spontanea dalle viscere popolari? Senonché,
il povero dialettologo, continuando per questa via, temerebbe
davvero di persuadersi delle proprie sue ragioni troppo di più che
non giovi; e meglio gli conviene il porsi a ristudiare gli scritti,
in cui le dottrine o le ragioni del Novo Vocabolario sono esposte,
da’ suoi promotori più cospicui, con quella sicurezza, lucida e
robusta, che spossa anche le obiezioni che non vince. Ma più che
obiezioni vere e proprie, al dialettologo rispuntano sempre dei
dubbj irrequieti, che versano circa il valore di certi paragoni,
circa il modo di considerare le cause del male o di pensarne il
rimedio, e insieme e in ispecie, com’è naturale, circa il carattere
che la disputa assume nell’ambiente di quella cultura, dalla quale
dipende, fra le minute cose, ma cosa per lui principalissima,
l’esistenza o la fortuna della propria /IX/ sua officina. Questi
dubbj, però, null’hanno essi /10/ medesimi in sé di peregrino o di
nuovo, e ora si accompagnano a un altro e molto grave dubbio, che è
dell’opportunità di manifestarli per le stampe, in brevissimo numero
di pagine e quasi improvvisando. Ma è un discorso che anche stampato
resterà confidenziale, come è scritto non per altro che per
mantenere un impegno.
[2 - pp.10-14]
Il Novo Vocabolario non è già nemico delle indagini istoriche
intorno alle lingue o ai dialetti; le più schiette lodi,
gl’incoraggiamenti più validi, vennero forse, tra noi, a siffatti
studj da uomini che caldeggiano i principj ch’egli rappresenta. Ma
questi principj, e quindi l’opera sua, risguardano, egli pensa, ben
altro e tutt’altro che non sia la storia o la filosofia delle
lingue. Si tratta di un interesse nazionale, grande e pratico; di
tal causa di utilità pubblica, dinanzi alla quale tace ogni diritto
di conservazione per qualsiasi più ammirabile monumento de’ tempi.
Si tratta di dare all’Italia una lingua, poiché ancora non l’ha; e
una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non
l’idioma vivo di un dato municipio; deve cioè per ogni parte
coincidere con l’idioma spontaneamente parlato dagli abitatori
contemporanei di quel dato municipio, /11/ che per questo capo viene
a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell’intiera
nazione. Ora, come il municipio livellatore è Parigi per la Francia,
così dev’essere Firenze per l’Italia; come la Francia deve la salda
ed efficacissima unità della sua lingua non ad altro che allo
scriversi e al parlarsi da tutti i Francesi la stessa lingua che si
parla a un tempo e si scrive a Parigi, così l’Italia, che pur deve a
Firenze quel tanto di linguaggio che la fa, bene o male, esser
nazione, è d’uopo che ritorni a Firenze per rattemprarvi ciò che già
ne prese, e prendervi ciò che ancora le manca, ed uscirne agitando
sicura il suo pensiero nella ritrovata unità della parola. Qual
fatica o qual concessione può parer soverchia per conseguire tanto
fine?
Ora il dialettologo non nega di certo il male, cioè la mancanza
dell’unità di lingua fra gli Italiani, e se ne risente, per ragioni
che non monta confessare, più di quanto altri mai possa; né, per
conseguenza, egli sa imaginare opera più meritoria di quella che /X/
valga a minorare questo male od a sanarlo. Ma le sue abitudini lo
fermano naturalmente, prima che ad ogni altra cosa, alle
considerazioni, che ognun sa fare, ma che a tutti forse non pajono
di ugual momento, sull’intima ragione del perché altri si abbiano
questo gran bene della sicurezza della lingua, che all’Italia manca.
Perché veramente ha dunque la Francia la salda unità della sua
lingua, o perché l’ha non meno salda, e anzi più salda e robusta
ancora, l’Allemagna?
Tutti sanno rispondere, con maggiore e miglior copia di parole che
non si possa qui ammannire. La Francia attinge da Parigi la unità
della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo in cui si è
fusa e si fonde l’intelligenza della Francia intera. Dal vertiginoso
movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell’universa
civiltà francese; e come a quel movimento prendono attiva parte
Francesi di ogni provincia che non si sentono efficaci se non quando
spendano le forze loro nell’unico e maraviglioso e tirannesco
laboratorio che è in riva alla Senna, così nessun concetto,
nessun’opera, nessun argomento di civiltà si può ormai diffondere
per la Francia con altra parola che non sia la parola parigina, per
la quale e con la /12/ quale surge. Nessuna città francese, priva
ancora della lingua, ha mai portato le proprie sue creazioni a
Parigi, ut videret quid vocaret ea; ma viene da Parigi il nome,
perché da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo
municipio l’unità assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente
pur quella dell’animo suo; e non solo studia e lavora, ma si
commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole; e
quindi è necessariamente dell’intiera Francia l’intiera favella di
Parigi, con tutta la nobilissima sua grazia e con tutti i suoi
capricci gergali, con tutta l’acutissima sua limpidezza, ma pur con
quel suo fare stereotipo, che può facilmente intorpidire il pensiero
e far che lo spontaneo rasenti l’automatico. Poiché non bisogna già
magnificar soverchiamente le fermissime rotaje dell’unico uso; e se
è buono che la parola obbedisca al pensiero con facil sicurezza, è
vero e riconosciuto altresì, che i cervelli mediocri (e qui il
mediocre è sempre quello che più importa e decide, perché i grandi
fanno /XI/ sempre bene dappertutto, qual pur sia lo stromento che è
dato loro, e Paganini sonava allegramente con una corda sola) i
cervelli mediocri lavorano tanto meno, quanto più il Frasario o
Vocabolario della loro nazione ci mostri lucidi e attraenti, tutti
ormai bell’e coniati, gli spiccioli del ragionamento o del pensiero
comune. Appena occorre poi toccare dell’enorme influenza che tanto
grande agitazione intellettuale e civile ha dovuto avere sullo
sviluppo della favella parigina , poiché /13/ tutti ormai hanno
istituito /XII/ confronti fra la parola che hanno spontanea i Littré
o i Renan, con quella di Rustebeuf o dei vernacoli borgognoni nel
cui àmbito stava primamente la favella dell’Isle de France, come per
lo stile ognuno ha potuto paragonare la prosa casalinga di Goffredo
di Villehardoin (non monta per lo stile che questi sia piuttosto
della Campagna che dell’isola di Francia) col romanzo o col dramma
dell’odierna Parigi, dove, a citare il primo adatto esempio che il
caso ci porga, una donna, non punto laureata, può dir con piena
disinvoltura: «l’incision chirurgicale nécessitée par les besoins de
l’alimentation» (che in lingua alla buona è un taglio da introdurvi
il cibo). Se Firenze fosse potuta diventare Parigi, tutti i culti
italiani oggi avrebbero sicuramente l’identico linguaggio dei
fiorentini; ma è altrettanto sicuro, che il linguaggio di /14/
siffatta capitale dell’Italia non sarebbe il fiorentino odierno, e
forse non si potrebbe pur dire un dialetto toscano.
[3 - pp.14-18]
La Germania, alla sua volta, non ha mai avuto un centro monarchico o
civile da potersi pur lontanamente paragonare con Parigi; è stata
scissa, nell’ordine politico, malgrado le apparenze di /XIII/ unità,
in modo non meno barbaro di quello che fosse l’Italia; mantenne
inoltre, e in parte ancora mantiene, tal disgregamento fra i ceti
diversi della sua società civile, che di certo l’Italia non conobbe
o conosce il suo uguale; subì per giunta la separazione delle
chiese, alla quale l’Italia ha avuto la fortuna o la sfortuna di
sottrarsi; e pur possiede, malgrado l’infinita varietà de’ suoi
dialetti, la più salda e potente unità di linguaggio che abbia mai
risonato sulla terra. Contro la quale affermazione, o l’opportunità
di confrontare il caso della Germania con quello della Francia o
dell’Italia, non si può affatto ripetere alcun argomento dalla
disinvoltura eccessiva con che il tedesco è ricorso ai vocabolarj
stranieri, o dalla sua facoltà estesissima di creare nuovi composti.
Tutti, /15/ oggidì, per la molto diffusa cognizione di codesto
idioma, sanno ciò anche fra noi; e tutti vedono, come la salda
unità, di cui si parla in questo luogo, concerna in ispecie
l’abbondantissima sicurezza di costrutti, di congiunture, di
giustapposizioni, di frasi e dizioni, sempre proprie ed indigene,
che rende la condizione del tedesco non diversa da quella che altri
ammira nel francese e si desidera nell’italiano. Ma nessuno, in
Germania, adora o pur discerne la culla della lingua; e mentre i
dotti tuttora discutono sul processo generale della sua formazione,
tutti sono convinti, che sarebbe vana la ricerca del preciso angolo
della patria tedesca, dal quale sbucasse primamente il rivolo, che
era destinato a diventare una così gran fiumana nella cultura del
mondo; né mai si è colà sentito il bisogno o il desiderio di
ribattezzare le lettere ad alcuna fonte privilegiata di lingua viva;
con questo di soprassello, che il più cospicuo, od almeno uno fra i
più cospicui centri letterarj dell’odierna Allemagna, cioè Berlino,
si trovi sopra un terreno, che non solo è di formazione germanica
tutt’altro che antica, ma spetta altresì a quella sezione
dialettale, cui non rivengono le varietà dalle quali o fra le quali
è surta la lingua letteraria; il che è pressappoco, trasportandoci
in Italia, come se a Nizza o a Bellinzona oggi fosse il miglior
fiore di una lingua, in cui si continuasse il tipo dialettale
dell’Italia mezzana. Il genio di Lutero, signoreggiato un idioma
aulico, greggio ed instabile, ne plasmò quella miracolosa versione
della Bibbia, che ruppe l’unità /XIV/ della fede e creò l’unità
della nazione . La Riforma, rifiutata /16/ da così gran parte degli
Alto-Tedeschi, di cui restaurava la lingua, imponeva per sempre
questa lingua medesima alla Bassa Germania. Ma il progresso dello
spirito tedesco, e perciò della lingua fattasi comune alla Germania
intiera, non continua sicuro e ininterrotto da Lutero a’ nostri
giorni; pur dopo Leibnizio resta mal certo, e l’età di Klopstock e
di Kant, due uomini che son morti nel secolo in cui viviamo, può
ancora vantarsi autrice della nazione, e nel pensiero e nella lingua
. Quindi è affatto moderna la /XV/ salda unità intellettuale e
civile della Germania; eppure è così profondamente salda l’unità
della sua lingua. Gli è che l’energia della progredita cultura, e
del ridesto sentimento nazionale, venne colà ad accoppiarsi a
un’operosità infinita; gli è che ogni studio del vero e dell’utile
ha rapidamente compenetrato la nazione intiera, e determinato un tal
movimento di ogni attività civile, un tale affratellamento in ogni
industria della mente e della mano, una tanta unione d’intenti e di
affetti, che nessuna distanza materiale ha più diviso fra di loro i
tedeschi, e son tutti diventati cittadini di una città che non
esiste. Dice stupendamente il Vocabolario Novo, che il «laboratorio
in cui la natura fa le lingue, le raffina e le perfeziona, non può
essere che un’agglomerazione di uomini viventi in uno scambio
continuo e obbligato di pensieri e di ufficî. Ma /17/ l’organo dello
scambio non è sempre necessario che sia la glottide; può anche
essere la penna, purché si sappia scrivere; e quando milioni di
menti agitano o hanno agitato la penna operosa, lo scambio si fa
così rapido, complesso, nobile ed efficace, la suppellettile messa
in comune si allarga, si affina, si afforza così mirabilmente, che
l’agglomerazione o associazione di uomini, tra cui lo scambio
avviene, può innalzarsi di fase in fase nella regione del pensiero
(che non è poi una regione artificiale), mentre altrove si disputa
di glottidi privilegiate o non privilegiate. Se i pensatori sono in
continuo colloquio fra di loro per tutta la gran patria tedesca,
l’operajo, da più generazioni, forse da secoli, la misura avidamente
co’ suoi passi, pregando e cantando nella lingua della sua chiesa; e
il vocabolario dell’officina, così come quello del filosofo, ha
ormai subìto il naturale o razionale suo processo di selezione e di
consenso. Col poeta, fattosi interprete assiduo della fede,
educatore assiduo e onnipresente di ogni nobile affetto della
nazione, la lingua ivi ricorre di continuo alle vive fonti della
tradizione antica e del popolo, mentre la scienza, o meglio
l’energia riflessiva e scernitrice, stampa in ogni movimento del
linguaggio, anche ne’ più intimi e riposti, l’impronta indelebile
della sua serietà divina. Nella scuola, nella stampa, nella intiera
operosità sociale che tutta è alimetata di culta parola, la si agita
colà quell’intensa /XVI/ vita della lingua, nella quale la proposta
individuale, la creazione, la disumazione, l’adesione, il rifiuto,
la riforma, la diffusione, l’uso, sono avvenimenti od effetti
incessanti, pei quali si continua o si riproduce, in nobilissima
sfera, il medesimo processo di consenso creativo, onde pur surge e
si assoda e si trasforma un vernacolo qualunque. Se nessun’altra
nazione fabbrica tanti dizionarj di ogni lingua quanti ne produce la
Germania, in nessun paese, all’incontro, gli scrittori sentono minor
bisogno di ricorrere al lessico per apprendervi la lingua della
propria nazione. Viva nella più ampia e viva di tutte le culture, si
ravviva quella lingua nel focolare della culta famiglia, che ormai
non ha favella diversa da quella dei libri; e non c’è bisogno di
dimenticare i difetti inerenti a codesta razza, o a codesto
linguaggio, per conchiudere, che l’energia, onde /18/ prorompe la
unità intellettuale dei Tedeschi, ha ormai per suo portato una
parola, la quale è l’effetto e lo stromento di tal facoltà
collettiva di pensiero e di lavoro, cui l’umanità non aveva peranco
raggiunto.
[4 - pp.18-22]
Che sarebbe avvenuto, in ordine alla parola italiana, se l’Italia si
fosse potuta mettere, molto più risolutamente che pur non abbia
fatto, per una via non disforme da quella che la Germania ha
percorso? Roma, per la sua originaria attiguità dialettale con
quella regione a cui la parola italiana va debitrice di ogni suo
splendore, e per esservi continuato, mercé la Santa Sede, un moto
energico, in molta e quasi inavvertita parte e come suo malgrado
italiano; Roma, nella favella spontanea di quanti suoi figli non
rimangano affatto rozzi, ci porge l’imagine o i contorni di una
lingua nazionale, e meritava, anche per questo capo, ridiventare
principe dell’Italia intiera. Ned è necessario avvertire, che il
grado di magistero, raggiunto da molti autori toscani e non toscani,
antichi e moderni, sia per la lingua e sia per lo stile, e sempre in
ordine al concetto della vera unità nazionale, appare ben diverso
all’umile scrittore di queste pagine da quello che ai fiorentinisti
non debba parere. Ma la nostra interrogazione fa parte /19/ naturale
d’un colloquio imaginario che si tenga con questi, e versa intorno
all’ipotesi di un processo di fusione intellettuale, e quindi
idiomatica e civile, /XVII/ indefinitamente più inoltrato che non si
sia potuto avere fra gli Italiani. Ora l’assunto implicito in quella
demanda, che è d’imaginare singoli esempj, i quali concernano un
tale processo ipotetico od i suoi effetti, può legittimamente parere
arduo insieme e puerile; e pigliarlo nelle strettezze di un discorso
così meschino com’è il presente, non è la minore fra le temerità di
cui si danno tante prove in questi pochi fogli. Ma il bisogno
dell’evidenza non permette di sfuggire questo carico; e il trattarsi
di casi imaginarj, non già di suggerimenti (che sarebbe una curiosa
presunzione) o pur di concreti desiderj, potrà forse rendere meno
difficile l’indulgenza di chi legge. Si finge qui dunque, per un
breve istante, l’officina germanica trasportata e adattata
all’Italia; dove intanto sarà lecito affermare, sulle generali, che
la qualità della letteratura e quindi della lingua iniziale, e la
potente organizzazione della chiesa italiana, avrebbero dovuto
agevolar l’opera di non poco, e renderne il frutto ben più squisito
di quello d’oltremonte. Il tipo della lingua italiana sarebbe sempre
rimasto non solo toscano, ma sì propriamente fiorentino; vale a
dire, per accertar l’enunciato con qualche esempio, che non solo un
veneziano amao per «amato», o il milanese roesa per rosa, o un
condiziona1e alla lombardesca o alla friulana come io portaréssi,
oppure un costrutto come tu hai-tu, secondo il genio dell’Alta
Italia, non vi sarebbe mai più stato legittimo o possibile, ma
neppure un gàmbaro alla sanese, in luogo del gàmbero di Firenze. Il
tipo fonetico, il tipo morfologico e lo stampo sintattico del
linguaggio di Firenze si erano indissolubilmente disposati al
pensiero italiano, per la virtù sovrana di Dante Alighieri. Ma tutto
quanto non contravvenisse al tipo, e fosse paesano e trovato
acconcio o preferibile nella gran conversazione delle intelligenze
nazionali, datesi a un’attività sempre più estesa e più intensa e
svariata, sarebbe passato per non meno o pure più legittimo di ciò
che spettava al fondo fiorentino, e a questo si sarebbe contessuto,
e l’avrebbe in vario modo, e di certo non lievemente, modificato. Si
sarebbe rispettata e voluta una /20/ libertà naturale e necessaria,
ugualmente rimota dalla superstizione e dalla licenza; e non v’ha
nessuna parte del linguaggio /XVIII/ per domestica, o confidenziale,
o volgare che sia, la quale non avesse potuto o dovuto risentirsi
della schietta fusione delle genti italiane. Poteva ben sorgere
qualche lusso di voci o locuzioni equivalenti, ma il provvido
rimedio stava unicamente nella selezione naturale, che sempre e per
ogni parte è il portato dell’attività prevalente, e nel caso nostro
è la predilezione che si determina dal voto del maggior numero (i
voti son presto dati, se tutti scrivono), oppur dal solo voto dello
scrittore di genio, quando il pubblico ch’egli affascina è veramente
la nazione. Il Fiorentino che si fosse messo a istruire per iscritto
le fanciulle od i sarti, avrebbe chiamato &Canello&c
quell’arnese che in tante altre favelle romane si nomina col normal
riflesso di un *digitale o *digitellario di lingua latina. Ma il
giorno dopo, in un’altra scrittura consimile, un maestro aretino
avrebbe messo fuori il suo ditale, come voce più evidente e propria;
e i suoi collaboratori di Venezia, di Milano, di Palermo, avrebbero
dato subito ragione al fratello legittimo del loro dexiàl didà o
jiditàli, e l’uso di Firenze così se ne andava legittimamente
sopraffatto . Non è facile dire, quale avesse potuto meritare la
preferenza, tra il mattatojo (*mactatorio) di Ancona e l’ammazzatojo
(*admactiatorio) di Firenze, entrambi di puro e identico metallo; ma
certo si deve dire, che la scelta dipendeva da quell’attività in
ordine allo studio e quindi in ordine a distinzioni teoriche e
pratiche sull’arte e sull’istituzione dei macelli, che fosse
l’opposto di quell’inerzia, la /21/ quale ha persuaso, se non
costretto, /XIX/ un articolo dell’Enciclopedia popolare italiana
(nella prima edizione per lo meno) a intitolarsi piuttosto abattoir
che non ammazzatojo. Nelle Marche, o in qualche parte delle Marche,
dicono piovere a vento per significare che la pioggia, spinta dal
vento, cade in direzione obliqua (il friulano plovi di stravint).
Ora, nell’ambiente imaginario della nostra ipotesi, nessuno si
sarebbe sognato d’interdire, a priori, l’uso di questa locuzione
così calzante, per la ragione che andasse aspettato o il consenso o
il sinonimo dei fiorentini. Se a un veneziano fosse venuto il
capriccio di scrivere che una cosa dà becco alle stelle, per
significare che è squisita, nessuno di certo gli avrebbe dato retta;
né più che a lui ad un fiorentino o ad un napoletano, che avesse
voluto mettere in mostra qualche suo modo di simil risma. Ma nessuno
avrebbe mosso rimprovero al veneziano se egli offriva alla
letteratura italiana il suo mettere il cervello a segno, malgrado il
pericolo che a Firenze così non si dicesse, o ivi piuttosto
mettessero il cervello a bottega od a partito. Vero è che il
siciliano, per significare il medesimo, sarebbe forse uscito col suo
«metter pensiero (méttiri pinséri), unione di parole che altrove può
valere «dare apprensione». Ma ognun vede, dopo il primo sgomento,
che l’equivoco non può facilmente avvenire od anzi è a dirittura
impossibile; poiché «metter pensiero», quando porti il significato
di «dare apprensione», deve reggere di necessità un dativo, che
nell’altra significazione deve di necessità mancare; e il metter
pensiero, locuzione parallela al metter radice, sostenuto da una
Sicilia che emulasse in attività civile la Sassonia, cioè che
mandasse al continente italiano i suoi milioni di chilogrammi di
libri, avrebbe potuto fare ben legittima fortuna, poiché l’autorità
legittima è l’energia operosa. E il gusto dei forti, d’altro canto,
suol essere meno schizzinoso di quello dei deboli; diguisaché,
rimanendo sempre nella nostra ipotesi, se per «stare in apprensione»
lo scrittore siciliano avesse più facilmente detto: star con
pensiero (stàri cu pinséri), e il veneziano, all’incontro, per
limitarci a lui, più facilmente: stare in pensiero, il divario
poteva forse piuttosto allettare che non spiacere, e nessuno, ad
ogni modo, ne avrebbe voluto /22/ fare un caso di stato. Si è
sentito, che traducono /XX/ il Caro dinanzi al tribunale dell’uso
fiorentino, perché egli scriva: trovare il pelo sull’uovo, e pare
che ogni buon Italiano avrà obbligo di non usare se non questo modo
solo: vedere il pelo nell’uovo. L’autore di questi fogli non sa dire
se il Caro, ch’era marchigiano, avesse, e prendesse con animo
deliberato, questo modo che s’incrimina, da un qualche dialetto a
lui familiare; ma può dire, che all’estremità orientale delle
Venezie, la balia ha a lui insegnato il preciso modo che il Caro
adopera, e vorrebbe ancora avvertire, che si tratta probabilmente,
nei due diversi modi, di due idee alquanto diverse, secondo che si
alluda a chi s’ingegni a scoprir delle scabrosità pur dove tutto è
liscio (un pelo sull’uovo), o a chi si lambicchi a trovare in una
data sostanza qualche elemento che le sia affatto estraneo (un pelo
nella polpa dell’uovo ). Ma piuttosto si permetterà di notare, che,
data sempre la nostra ipotesi, nessuno cercherebbe o troverebbe di
simili peli. Poiché, in quarant’anni di lavoro, quell’officina
avrebbe centuplicata la densità del sapere; e la modificazione
grandissima dell’apparato intellettuale della nazione, importerebbe
per se medesima, e per la mutata condizione degli animi, un così
grande rivolgimento pur nell’ordine della parola, che la dicitura
casalinga, o l’idiotismo ed il proverbio, assumerebbero, in ogni
specie di scrittura, una sembianza ben diversa da quella che
altrimenti possano avere.
[5 - pp.23-26]
/23] Ciò non vuoi già dire, che l’idiotismo e l’ingenuità della
dizione vadano sbanditi perché una moltitudine di pensatori,
associati ma non livellati, abbia cresciuto energia alla parola, ne
abbia sprigionato molte facoltà imprima latenti, abbia creato,
sublimando il genio nativo, quello strumento caratteristico delle
nazioni che è lo stile. Ma vuoi dire, che se il sussiego è una gran
brutta cosa quand’è un’/XXI/affettazione, può all’incontro avvenire,
molto naturalmente come ognun vede, che il colloquio segua in tali
condizioni, nelle quali il mancare di gravità o di sussiego o di
serio colore, costituisca egli, alla sua volta, una vera
affettazione o il più grave degli stenti. Nessuno vorrebbe di certo
che un ministro dicesse in parlamento: «l’Inghilterra arriccia il
naso»; oppure: «noi in queste cose di Turchia non ci si ficca il
naso»; come ognun sente che fra due scienziati è modo più naturale,
anche nel discorso casalingo: «vi si determina un piccolo vano», che
non: «ci si viene a formare un bucolino». Nel primo caso, è la
solennità della conversazione che esige forme più elette; nel
secondo, il modo più eletto deriva, quando pur non sia
necessariamente richiesto, dall’abito di una mente, il cui lavoro è
più complesso, e insieme più facile e sicuro, che non sia di solito
il lavoro mentale di chi si esprime nel modo più pedestre; questo è
d’aritmetica elementare, quello incomincia ad essere algebrico; e se
v’è chi sappia fare il prodigio di riprodurre gran parte delle
operazioni dell’algebra con la pura aritmetica, nessuno perciò vorrà
sostenere che il prodigio sia una cosa naturale, o che una nazione
si abbia a muovere a furia di miracoli. Ora imaginiamo, e v’ha ormai
pur troppo, un’intiera società, anzi un’intiera nazione, nel cui
eloquio il determinarsi un piccolo vano sia modo più naturale o
consentaneo che non sia il venircisi a formare un bucolino, e noi
vediamo facilmente, che la ragione di questa spontaneità, e la
ragione /24/ della solennità legittima, si confondono in una ragion
sola per escludere molta parte di intimità casalinga, o municipale,
dalla lingua con la quale parlano dinanzi al mondo le diverse stirpi
di una medesima nazione. Qual mente si può pensare più aliena da
ogni affettazione di quello che fosse la mente di Guglielmo di
Humboldt? Ebbene, proviamo a tradurre in istile casalingo, o florido
d’idiotismi e di proverbj, una qualsivoglia delle sue scritture, o
letterarie, o critiche, o filosofiche; oppure proviamoci a
stabilire, dopo aver considerato l’opera sua e de’ pari suoi, dove
finisca il linguaggio delle lettere e dove incominci quello della
scienza. O v’è cui possa parere più calzante il confronto di Platone
fra un pugno di liberi Ateniesi, che non sia quello di Humboldt fra
i milioni di Tedeschi, quando il problema verte sul modo in cui si
possa estrinsecare, con uniforme parola, il pensiero di una nazione
moderna, multistirpe e /XXII/ centrifuga, il quale deve
laboriosamente nutrirsi di un sapere infinito e per molta parte non
indigeno? Di certo, gli idiotismi, i tratti popolarmente vividi, non
possono e non devono mancare ad alcuna letteratura, o lingua scritta
che dir si voglia; ma parte risalgono a quel primo fondo dialettale
che servì a mettere in comune il lavoro intellettivo della nazione,
cioè spettano all’età quasi infantile, all’età del cieco
assorbimento, all’età meramente mnemonica della nazione
rinnovellata; parte ne inocula più tardi o ne infonde
irresistibilmente la virtù sovrana dell’Arte o il giovanile
ribollimento di un’attività comune; ma sempre si tratta di fenomeno
come istintivo, e l’istinto tanto può meno quanto più la riflessione
può, né alcuno forse aveva prima d’ora mai imaginato che un
vocabolario avesse a sfidar la riflessione e a inocular l’istinto. A
sentire i fiorentinisti (ed è una scuola dove i discepoli vanno
naturalmente e subito molto più in là che non faccia il Maestro,
poiché non si tratta già del mero e solito contingente della
esagerazione di un principio, ma è il caso di un principio che non
si possa distinguere dalla sua esagerazione, od anzi non è pure il
caso di un principio, ma sibbene della semplice contraffazione, più
o meno felice, di una realtà, spontanea insieme e necessaria, che la
storia ha altrove prodotto), pare molte volte, se non /25/ sempre,
che essi non vogliano pensare altre obiezioni, se non quelle che
credono derivare da pregiudizj italiani; e che al di là dei monti e
dei mari, tutto ciò ch’essi dicono debba sembrare la cosa più
naturale del mondo, perché, ovunque si ha una lingua nazionale, sia
avvenuto e dovuto avvenire che altro mai non si facesse se non
quello appunto che ora essi chiedono alla loro pervicace nazione. Ma
sarebbe un curioso esperimento istorico il metterli a discutere di
qualsivoglia innovazione, da loro caldeggiata, con quel qualunque
uomo del mestiere che oltremonte a lor quadrasse. E si può dar loro
facilmente un qualche esempio delle pedanterie che avrebbero a
sentire da colui. Il sostantivo punto, egli direbbe, exempli gratia,
essendo venuto a funzione quasi avverbiale (non ne ho punto = non ne
ho nulla; temo poco o punto), da questa poté poi passare, nell’uso
toscano o fiorentino, a far d’aggettivo (poca paura, punta /XXIII/
paura); è vicenda ideologica non gran fatto strana; è una evoluzione
dell’uso che ha la sua chiara storia: ma di queste due fasi storiche
del valore di punto, la prima era compìta quando la favella dei
toscani o dei fiorentini si riversò in quella serie di scritture che
accomunò al pensiero di tutti gl’italiani un medesimo tipo
dialettale, e la seconda, all’incontro, non lo era, o non appare che
fosse (l’essere e il parere fanno, in questo caso, lo stesso), e
oggi, nell’età della riflessione, nessuna ragione ideologica,
nessuna necessità tecnica, nessun consenso generale di popolo, viene
a raccomandare al pensatore, o ad imporre ai letterati, la punta
vista o i punti scrupoli; e questa naturalezza fiorentina, sarebbe
perciò un’affettazione italiana. Voi insegnate, continuerebbe quel
barbassoro, che si abbia a scrivere dette anziché diede, ma diede
per DEDIT è voce schiettamente popolare e italiana e toscana, quanto
è piede per PEDE; il dittongo vi assicura, se ne fosse d’uopo, che
essa è uno dei fiori più spontanei e delicati della vostra terra;
quanti Italiani mettessero in iscritto il loro pensiero, da Susa a
Trieste e da Trento a Palermo, non hanno mai usato, da più secoli,
altro che diede, e questa forma, squisitamente istorica, e
invidiabilmente pratica, perché si dovrà affettatamente sagrificare
alla postuma prediletta di un vernacolo? Qualsiasi aberrazione /26/
dialettale (parla sempre il barbassoro) può bensì incogliere una
lingua letteraria, per cause che inavvertitamente o
indispensabilmente si subiscono; ma se voi oggi insegnate agli
Italiani, che il modo: io e te quando ci si lamenta merita e deve
soppiantare quest’altro: quando io e tu ci lamentiamo, voi date pien
diritto ai vostri avversarj di rispondervi, che da pedante a
pedante, meglio è la grammatica che lo sgrammaticare. Quando
v’imaginate d’imporre il fiorentino doventa agli Italiani che
scrivono diventa, questi dovrebbero sapervi rispondere, mercé le
fatiche nostre, che se il fenomeno sporadico di o dall’e atona
latina, per effetto della labiale che sussegue, era compito e fermo
nel fiorentino dovere (DEBERE) in quell’età di cui prima si è
toccato, e ritornava per questo stesso verbo in un numero infinite
di altri vernacoli italiani, alcuno dei quali lo tollera eziandio
nelle voci del verbo medesimo che hanno l’accento sulla prima;
/XXIV/ nel caso di diventare, all’incontro, benché si trattasse di
sillaba sempre atona, il fenomeno non era compito e saldo nel
fiorentino, né avrebbe trovato simile consenso negli altri
vernacoli; e che perciò il volere oggi, nell’età della riflessione,
che si lasci di punto in bianco il modo sempre usato da tutti
gl’Italiani, e si turbi la norma etimologica (di-ventare), evidente
a tutti e sentita da tutti, gli è proprio un fare troppo a fidanza
con la bontà degli uomini. Ma se il barbassoro potesse mai sapere,
che il fiorentinismo, in certi momenti, ha degli entusiasmi
minacciosi, durante i quali par che l’Italia non debba risorgere se
non al sacro grido di Noi si doventa òmini, egli direbbe, almeno fra
sé, che questo è un bell’avviamento ad evirarsi.
[6 - pp.27-35]
/27/ Ma checchessia delle intemperanze altrui e delle nostre, i
periodi che precedono volevan ricordare, che, nel caso della
Germania, l’uso è veramente creato o stabilito dalla letteratura
comune, e nel caso della Francia è stabilito o creato dalla
conversazione e dalle lettere di quel municipio, nel quale si
accentra ogni movimento civile della nazione; che perciò, in
entrambi i casi, la unità dell’idioma in tanto si estende, in quanto
lo importa la virtù indefettibile della comunità del pensiero o
l’azione imperativa dell’intelletto nazionale, la quale s’incarna
nell’idioma medesimo, e non incontra nessuno, che voglia o possa a
lei sottrarsi; cosicché il vocabolario ivi risulta, come vuole la
natura della cosa, ben piuttosto il sedimento che non la norma
dell’attività civile e letteraria della parola nazionale. Dal fatto
della salda unità di linguaggio, di cui si /28/ rallegra la Francia
o la Germania, non può quindi venire alcun argomento di legittimità,
od alcuna speranza di facile conseguimento, al proposito di ridurre
tutta l’Italia alla pretta favella di Firenze. La distanza che
separa quelle realtà da questo desiderio, non si limita punto alla
differenza che passa tra cosa fatta e cosa da farsi; e se nessuno ha
mai inteso di negare una verità così evidente, e tutti anzi l’hanno
dovuta esplicitamente riconoscere, non è forse affatto inutile, che
qui se ne tocchi in modo ancora più chiaro. Poiché veramente, in
quanto per l’Italia si voglia innovare secondo i principj che il
Vocabolario Novo inculca (ed /XXV/ è un quanto che a molti deve
apparire assai elastico, ora sentendosi che lo pseudo-italiano, di
cui, nell’illusione di possedere una lingua, noi àfoni ci valiamo,
altro non è che un informe accozzamento di variopinte parole, ed ora
assicurandosi che l’operazione del fiorentinismo è ormai per quattro
quinti bell’e compiuta e nel resto si compirà senza molto disturbo),
si tratta di conseguire l’effetto, che ad altri invidiamo, per una
via, non solo disforme, ma addirittura opposta a quella per cui lo
conseguirono le genti da noi invidiate. Tra le quali essendosi avuto
in tutto e del tutto simultaneo il moderno svolgimento della parola
e del pensiero o dell’attività nazionale, le menti non si nutrono,
né si possono nutrire d’altro idioma, che non sia quello della
nazione e di tutti i libri. Fra noi, all’incontro, malgrado ogni
temperamento di cui si circondi la romorosa innovazione, si riesce a
dire a coloro che pensano e studiano, cioè a coloro che pur hanno
una culta favella mentale, con la quale ruminar le idee: smettete lo
stromento del vostro pensiero, perché ha bisogno di essere mutato o
almanco modificato per bene. Si viene a dire agli operaj della
intelligenza, che sospendano, tanto o quanto, la propria industria,
e non già per rifornire il loro apparecchio mentale col rituffarlo
in una nuova serie di libri che ancora alimentino il loro pensiero e
i loro studj (che sarebbe cosa tollerabile), ma per farsi ad imitare
(essi dicono scimieggiare) una conversazione municipale, qual sarà
loro offerta da un vocabolario, da una balia, oppur dal maestro
elementare, che si manderà (da una terra così /29/ fertile
d’analfabeti) a incivilir la loro provincia. Ma i più, o molti
almeno, fra gli odierni studiosi dell’Italia non-toscana, così come
in fondo facevano molti dei loro maestri nelle generazioni
precedenti, reputano che il male, per la maggior sua parte, stia in
ben altro che non nel quanto o nel quale degli elementi di favella
ormai messi in comune; essi credono, a torto o a ragione, che le
menti loro stieno appunto lavorando, pro virili parte, a far che si
consegua, per quel modo che è l’unico possibile e non è punto
diverso da quel che fu tenuto altrove, quanto ancora manca e più
importa a determinare o promuovere la saldezza, la unità, e anche la
purità, della parola /XXVI/ nazionale; e si irritano, o si sono
irritati, per ciò, che mentre essi tentano (ed è forse una pia
illusione) di portare qualche incremento al patrimonio delle idee
italiane, mentre si credono intenti a suscitar quella larga spira di
attività civile che poi debba travolgere in ferma unità di pensiero
e di parola tutte le genti d’Italia, altri sparga delle dottrine,
dalle quali, con facile e non evitabile eccesso, si viene al punto
di bandire, che non saremo nazione, in sino a che essi scrivano per
maniera, che di certi loro modi o costrutti possa ridere per
avventura un qualche fiorentino che ozia. E rida con suo danno, essi
dicono, che noi senza danno rideremo di lui. Questa è, suppergiù, la
risposta mentale che si oppone, non tanto al Vocabolario Novo,
quanto alle esagerazioni che sono implicite nel suo principio, da
buona parte, forse dal maggior numero di coloro, che oggi si sentono
chiamati a parlare utilmente con la penna; qui è la ragion vera, e
forse non illegittima, delle difficoltà che egli /30/ incontra, non
in alcuna boria municipale o in qualsiasi altra causa ch’egli venga
imaginando.
Se però è chiaro che l’Italia non abbia l’unità di lingua perché le
son mancate le condizioni fra le quali s’ebbe altrove, e insieme è
chiaro che il non averla debba molto dolere agl’Italiani e sia
sorgente legittima della disputa eterna, si deve ancora chiedere,
perché veramente sieno all’Italia mancate le condizioni che altrove
condussero alla unità intellettuale onde si attinse la unità di
favella; o in altri termini, semplificata la questione, perché
l’Italia non raggiungesse quell’unità di pensiero, a cui la
Germania, malgrado gli ostacoli di cui più sopra si toccava, è pure
pervenuta. L’intiera risposta è per vero già involta, più o men
distintamente, in ciò che precede; ma l’assunto inesorabile vuol che
si arrivi in sino al fondo e sempre con esplicite parole. Questa
diversa fortuna dell’Italia e della Germania, può dunque giustamente
parere il prodotto complesso di un infinito numero di fattori; se ne
posson dare ragioni di razza, di tempi, e d’ogni altra specie; ma
rimane sempre, che la differenza dipenda da questo doppio inciampo
della civiltà italiana: la scarsa densità della cultura e
l’eccessiva preoccupazione della forma. Nessun paese, e /XXVII/ in
nessun tempo, supera o raggiunge la gloria civile dell’Italia, se
badiamo al contingente che spetta a ciascun popolo nella sacra
falange degli uomini grandi. Ma la proporzione fra il numero di
questi e gli stuoli dei minori che li secondino con l’opera assidua
e diffusa, è smisuratamente diversa fra l’Italia ed altri paesi
civili, e in ispecie fra l’Italia e la Germania, e sempre in danno
dell’Italia. Qui vi furono e vi sono, per tutte quante le
discipline, dei veri maestri; ma la greggia dei veri discepoli è
sempre mancata; e il mancare la scuola doveva naturalmente stremare,
per buona parte, anche l’importanza assoluta dei maestri, questi
così non formando una serie continua o sistemata, ma sì dei punti
luminosi, che brillano isolati e spesso fuori di riga. E
dall’abbondanza dei nomi giustamente vantati, potevano derivare, e
derivano non di rado, illusioni strane o dannose; l’esservi i duci
sembrando di necessità importare che v’abbiano pur le legioni fra la
propria loro gente; doveché è avvenuto, con molta /31/ frequenza,
che i duci italiani (e non già sul campo, come la metafora direbbe,
ma come pur sul campo fuor di metafora è stato) hanno cresciuto e
guidato, non legioni paesane, ma legioni straniere. L’Italia par che
sdegni la mediocrità, e dica alla Storia: A me si conviene o l’opera
eccelsa o l’oziare. Ma l’ozio di questa terra privilegiata, non
potrebbe mai essere l’ozio sterile delle barbare lande; è l’ozio
dell’alma educatrice delle arti, assorta dolcemente nella
contemplazione dei bello; non è il sonno di una gente avvilita: è
arte ascetica. Ora, nella scarsità dei moto complessivo delle menti,
che è a un tempo effetto e causa del sapere concentrato nei pochi, e
nelle esigenze schifiltose del delicato e instabile e irrequieto
sentimento della forma, s’ha, per limitarci al nostro proposito, la
ragione adeguata ed intiera del perché l’Italia ancora non abbia una
prosa o una sintassi o una lingua ferma e sicura. E a che ora si
riduce, per necessaria conseguenza di predisposizioni non felici, il
nobilissimo intento di rimediare al doloroso effetto? Si riduce a
ribadirne le cause. È questa una risposta molto audace, che se
proviene per avventura da una sufficiente persuasione di cogliere il
vero, esce bene a stento dalla penna, per quelle molte ragioni che
ognuno /XXVIII/ facilmente imagina. Ma le squisite brame di quel
Grande, che è riuscito, con l’infinita potenza di una mano che non
pare aver nervi, a estirpar dalle lettere italiane, o dal cervello
dell’Italia, l’antichissimo cancro della retorica, hanno pur dovuto,
per tutto quanto concerne le rinnovate norme della parola,
degenerare prontamente, fra gl’imitatori, in un nuovo eccesso
dell’Arte. Le ragioni pratiche, che rincarando sulla lezione del
Maestro, od ampliandola, si vennero adducendo dai seguaci, altro non
devono parere esse medesime che una scusa dell’Arte, intenta a
coonestare i suoi arbitrj. Così ci parlano dei gran danno che sia il
mantenere i nostri figliuoli quasi bilingui, lasciando loro cioè il
dialetto materno e costringendoli a studiare, al modo che si fa d’un
idioma estraneo, la lingua che si dice nostra, con tanto spreco,
aggiungono, delle loro intelligenze, e in /32/ tanto bisogno di far
tesoro di ogni più piccol briciolo delle facoltà mentali della
nazione; come se la scienza e l’esperienza non dimostrassero in
cento maniere, che è anzi una condizione privilegiata, nell’ordine
dell’intelligenza, questa dei figliuoli bilingui, e come se in casa
nostra fosse affatto chiaro che l’incremento della cultura stia in
ragion diretta della prossimità o della maggior vicinanza fra parola
parlata e parola scritta, laddove il vero è precisamente l’opposto.
Pare, alle volte, a sentir quegli esageratori dei Maestro, che al
modo, in cui stiamo, non si possa assolutamente andar più innanzi,
poiché nelle scuole non arriviamo a far distinguere tra persiana e
finestra, e al nostro ronzino corriamo rischio ogni giorno di far
dare una biada per l’altra. Ma la nostra nomenclatura, domestica o
tecnica, si riproduce da più generazioni, si potrebbe quasi dire da
secoli, in un numero infinito di vocabolarj più o meno copiosi, dove
alla voce italiana sta accanto l’equivalente francese, spagnuolo o
tedesco; alcuni di questi vocabolarj sono estesissimi, e l’italiano
vi riflette, con sobria nitidezza, voce per voce (ed anche locuzione
per locuzione), l’intiera suppellettile di altri ricchissimi idiomi;
né mai si è sentito da chi ne fa o ne fece quotidiana esperienza o
quotidiani confronti, che la mala sicurezza sia proprio un
distintivo della parola italiana. Ripetano ancora per poco le loro
doglianze quei zelatori /XXIX/ intempestivi, e vedranno sorgere,
alle nostre frontiere, officine attivissime di estratti di lessici,
a uso degli Italiani che hanno perduto la loro favella, coi sicuri
riscontri in varie lingue, e le vignette rispettive. È proprio uno
zelo illusorio e nocivo; e in realtà noi assistiamo ad un movimento,
che partito dalla altissima sfera in cui l’Arte e la Filosofia
stanno congiunte e indivise, doveva immediatamente comunicarsi a
quegli spazj, in cui l’Arte altro non è che un’estasi o un istinto,
e ha bisogno di un idolo. Or v’ha una regione, o una città, la
Toscana o Firenze, in cui vive, splendida di grazie natie, una
favella che mal si scerne dalla lingua dei buoni scrittori, e ha
movenze di gran lunga più belle, più /33/ candide, più sicure che
non abbia questa. Dinanzi al tribunale della verità implacabile, la
candidezza fiorentina, e il lieve o incerto distacco tra il
linguaggio fiorentino e quello delle scritture italiane, potranno
suonare accuse gravissime d’insufficienza di moto civile e per
Firenze e per l’Italia. Ma se il serbatojo toscano è limpido e terso
perché la cultura ha ristagnato, non è men vero che la sua
meravigliosa limpidezza innamori il barbaro e debba affascinar
l’artista. Al quale non può non sembrare una vera bestemmia il
concetto di una civiltà che avesse dovuto o debba turbare la linfa
incantevole; e deve all’incontro parergli ovvio e legittimo, che
l’Italia intiera essendo pur così poco rimota da Firenze, poiché
scrive o parla comunque, in ogni occasione per poco solenne, un
linguaggio che è uscito di Firenze, abbia finalmente a varcare
quella breve distanza che ancora da Firenze la sequestra, e quasi
transumanarsi, sì che da ogni angolo del bel paese possa fra non
molto risonare la stessa favella ammaliatrice che ora sta rinchiusa
in così breve giro. Come sottrarlo a questo ideale abbagliante? Che
c’entra il sapere, chi osa discorrere di perfezionar la parola o di
sviscerarla, quando il sommo bene sta nel porre dolcemente il capo
in grembo alla natura inesplorata e misteriosa? Si tratta di
respirare un’aria balsamica come Iddio l’ha fatta; non ci deve punto
entrare il chimico od il fisico; ma arbitri esclusivi son le nari ed
i polmoni degli uomini che la scienza non ha infetto. Nessuna
obiezione spontanea può sorgere nell’animo dell’artista; nessuna
/XXX/ obiezione altrui può forse riuscirgli intelligibile. Nella
Toscana o in Firenze, considerano altri operaj della civiltà che non
sien gli uomini dell’Arte, appunto perché ivi batte il cuore
dell’Italia, spicca assai più che non altrove il carattere
distintivo della cultura italiana, che è il concentrarsi della luce
nei grandi, in mezzo all’ombra o alla penombra generale; si che
dobbiam patire che lo straniero noti, come la patria di Dante, di
Machiavelli e di Gino Capponi, resista pertinacemente ai tentativi
che mirano ad accrescervi la diffusione del sapere; e come gli Atto
Vannucci fioriscano in un ambiente, che insieme riesce così
contrario alla vegetazion dell’alfabeto. Ma ciò non istoglie punto
l’artista dal chiedere /34/ affannosamente, e senza mai mostrare
alcuna esitanza, che di Toscana, o da Firenze, debbano a furia farsi
uscire legioni intiere di maestri elementari, i quali si spargano a
educar tutta l’Italia; egli vuole alle Alpi un apostolo qualunque
della pronuncia e della frase fiorentina, laddove l’Europa dice, che
l’Italia politica e pensante debba piuttosto far calare gli
Alpigiani nel circondario di Firenze, a diffondervi la lingua della
penna. Ned è certo illegittimo un qualche sgomento che il fenomeno
di questa nuova esaltazione dell’Arte desta per se stessa in molti
pensatori italiani. Prima si aveva (e dura ancora per molti) ideale
della tersità classica; ora sorge ideale della tersità popolana; ma
è sempre idolatria; lo scrivere correttamente rimane sempre,
malgrado la vantata sicurezza delle contrarie norme, una cosa che sa
di miracolo, una cosa da perigliarvi la vita; e gli scrittori utili
ma non-artisti, che sono o dovrebbero essere i più, e quindi i più
decisivi in ordine all’uso nazionale, trascorrono, per naturale
reazione, all’eccesso opposto, e ribellandosi legittimamente a una
religione che scomunica, cioè dà del barbaro, a chi non fa miracoli,
trascendono a vantarsi di non avere culto alcuno e di barbarizzare.
Prima, quando lo scrittore timorato aveva la fatalità d’imbattersi
in una idea, o meglio di rasentare una di quelle regioni ideali, che
il pensiero italiano o il pensiero dei classici non aveva ancora
conosciuto, e doveva perciò usare una qualche parola che non fosse
nella Crusca e tradisse un qualche nuovo fenomeno della civiltà
/XXXI/ universale, egli la accompagnava del famoso «come dicono»,
che significava: come direbbero quegli esseri compassionevoli che
sanno quello che io non so, o hanno un’idea per la quale a me manca
la parola. Oggi, il nuovo ideale suona all’incontro: scrivere e
parlare per modo, che nel nostro discorso il Fiorentino non possa
trovar mai nulla che sia disforme dalla sua domestica favella;
evitare che il Fiorentino (il quale, del resto, lasciato a se
medesimo, rinunzia ben facilmente all’enorme autorità di cui lo
vorrebbero investito) possa mai ridere della nostra imitazione
imperfetta. Perciò tentare, con quel maggiore sforzo che alla
nazione sia dato, di venir presto a tali condizioni, che da ogni
terra italiana possa nascere spontanea una novella /35/ o una
comedia in pretta favella fiorentina. L’Arte, che crede aver pronta
una forma squisita, non può di certo aspettare, che la progredita
cultura rifaccia la nazione, e poi surga un teatro, non veneziano o
piemontese o fiorentino, ma di lingua parlata che sia propriamente
italiana; vuole la comedia prima della nazione; intende il
linguaggio, non come una cute che sia il portato dell’intiero
organismo della vita nazionale, ma come una nuova manica da infilare
(modo veneto questo, per avventura, e io non avrei diritto di
chiederne venia). Ideale del classicismo di certo non si attagliava
al concetto della vera unità nazionale; ma a questo non ripugna
meno, od anzi gli ripugna ben di più, il nuovo ideale del
popolanesimo, a cagione del principio idolatrico a cui si è venuto
informando. E se è vero, come anzi ci mostrano di continuo, che
nelle regioni dell’Arte corra un legame, più ancora stretto che non
sia altrove, fra il pensiero e la forma, l’arte medesima non avrà
forse gran fatto a rallegrarsi di questa infinita brama di
fiorellini, placidamente raccolti sull’ajuola nativa che ora
vorrebbe dire l’unica ajuola fiorentina. Non mai, per avventura,
l’Arte si sarebbe messa in maggiore antitesi con quella virile
civiltà a cui pur l’Italia virilmente aspira; né mai si sarebbe più
fatalmente scambiato, sotto le apparenze di serbar puro il carattere
nazionale, quel di poetico o di terso che la lunga immobilità dei
secoli può conferirci, col genuino e sempre nuovo suggello che i
popoli robusti imprimono e nella sostanza e nella forma di quella
/XXXII/ parte che a loro spetta nel comune lavoro delle genti
civili. Ma sia comunque, non può a noi parere, per le ragioni qui
addotte o accennate, che il fiorentinismo giovi in alcun modo
all’intento di rinnovare od allargare l’attività mentale della
nazione, ma deve anzi parerci che addirittura vi controperi; non
potremo credere così di leggieri che egli giovi a stremare la
soverchia preoccupazione della forma, ma deve anzi parerci che vie
più l’accresca; e ci parrebbe finalmente un miracolo, se dei mali,
che direttamente vuol curare, egli non riuscisse a liberarci a quel
modo, che i dazj esagerati soglion far del contrabbando.
[7 - pp. 36-39]
/36/ Ma delle condizioni e delle tendenze, che qui si sono
rapidamente ricordate, tanto più si doveva e si deve risentire il
movimento od il progresso di ciascun ramo di studj, quanto il suo
subietto meno perdoni una lunga e regolata ostinazione del lavoro di
molti, e meno insieme si dilunghi dalle sfere in cui l’Arte dispiega
l’opera sua. Quindi le discipline istoriche, e le filologiche in
ispecie, se ne risentirono molto di più che non le matematiche o le
fisiche; il che già non vuol dire, che non si sieno avuti in ogni
tempo, e quindi si abbiano pur nel presente, e da ogni parte
dell’Italia, uomini così insigni nella filologia e nella /37/
storia, che tutta Europa c’invidii; ma vuol dire, secondo che più
sopra si è ripetutamente indicato, che in questo gruppo di studj il
numero dei buoni seguaci si è dovuto fare più scarso che mai, e di
rimbalzo più che mai slegata la serie de’ maestri. Onde si spiega,
come ancora si possa sentire, e sentir lodata, una moltitudine di
scrittori, che in fondo vengono a dirci, dover la pura italianità
(pura a modo loro), rassegnata ormai a non più entrarci nel giro
delle scienze esatte, che è dei cosmopoliti, padroneggiar lei, con
rinnovellata energia, tutto quanto il resto; il qual resto poi, al
far dei conti, sembra determinarsi per loro in tal modo, che fra il
compasso e la cetra, fra il microscopio e l’Arte, non ci sia
pressoché nulla di sodo e positivo, o solo dei ruderi più o men
frammentarj, dei materiali che si ribellano a ogni studio sicuro o
fecondo, intorno ai quali sudano, ed anche di soverchio, degli
eruditi più o meno miopi, non benedetti d’altra speranza che non sia
quella di render forse più facile al mero buon /XXXIII/ senso, ed
all’arte, il ridurre un giorno in pillole letterarie, classiche o
popolane, la conoscenza dell’antichità o d’altre cose simili, sin
dove ne possa importare agli illuminati. Non mancarono mai, per
vero, voci imparziali, maschie e paesane, e toscane in ispecie, che
si alzassero tratto tratto a dire, come quei poveri miopi, ben lungi
dal muoversi all’infuori del campo che è delle scienze, spaziano
serenamente in questo e lo estendono, e si avanzano con metodi nuovi
e sicuri, e ormai sono autori di un’intiera catena di nuove
discipline dell’esperimento, possessori di un nuovo ed inaspettato
tesoro di vigorose teorie, dimostratori assidui della continuità
assoluta dello scibile intiero e anzi demolitori di ogni barriera
che separi l’arte dalla scienza. Non mancò mai, di certo, chi
bandisse fra noi, con autorità veramente nazionale, che quanto sono
meno traducibili in numero e misura quei subietti, intorno ai quali
si esercitan praticamente le costoro discipline, quanto perciò è più
squisito, nell’ordine mentale, l’organo metodico pel quale le loro
sperienze procedono, quanto più esse contribuiscono a diffondere
l’abitudine della dimostrazione positiva e scientifica anche al di
là del regno delle cifre e delle linee, quanto più sia ancora facile
e solito che il profano s’illuda /38/ e presuma ed aberri in ordine
alle cose sulle quali esse versano, e tanto maggiormente,
prescindendo dall’utilità intrinseca del sapere, esse giovino a
rattemprare il pensiero nazionale e a procacciargli una sua propria
e particolar determinazione ed importanza nel movimento universale
degli studj e della civiltà. Ma le splendide difese, avvalorate da
splendidi esempj, non potevano di leggieri bastare, non che a
vincere, pure ad attutire quelle contrarie tendenze che in parte qui
si ebbe la temerità di additare; e nella nobilissima gara per la
palma del sapere istorico, l’Italia ha perduto fra le nazioni il
posto glorioso che a lei spettava.
Pure, se può sembrar tuttora utile o doveroso il parlar con animo
aperto di simili contrasti, sarebbe affatto contrario al vero lo
sconoscere, che l’assiduità di coloro, che caldeggiano le severe
discipline storiche, cresce cosi visibilmente come scema la forza
dell’opposizione che incontra. La stessa mobilità di alcuni fautori
più /XXXIV/ o meno infedeli, ci ha giovato; poiché le contraddizioni
in cui essi caddero, circa i bisogni e i progressi degli studj
storici in Italia, dovettero farli sembrare dei sonnambuli, i quali,
all’indomani di Solferino o di Sadova, si mettono a gridare, che le
artiglierie di Francesco Sforza sono assolutamente cose antiquate,
ma altri due giorni dopo affermano, che l’energia italiana non si
può e non si deve spiegare se non nell’ambiente ove campeggiano il
Çid e Babieca. Più di un argomento accessorio, ma molto usato, dei
nostri oppositori, si è inoltre venuto spuntando fra le loro mani.
Quando essi pure ammettevano che la scienza boreale avesse del
buono, e qualche spruzzo di quella barbarie potesse tornarci
opportuno (nel che parevano malamente riprodurre un moderno e sagace
geografo cinese, il governatore Lin, il quale, ricorrendo assai
largamente alla scienza europea, dice ai suoi connazionali, come per
farsi perdonare il peccato, che bisogna pur prendere qualche
cognizione di quel sapere, «che ha egli forse resi superiori i
barbari, sotto il rispetto militare»), si mostravano però sempre
sgomenti del fatale ossequio, che potesse oggi invalere per tutto
ciò che sapeva di tedesco. Ora, quanti Italiani sieno venuti a
lavorare sul campo degli studj ai quali qui si /39/ allude, hanno
sempre tutti mostrato tutta quella indipendenza e tutta quella
originalità, che la sana mente consentisse. Il fatale ossequio si
riduce veramente a questo, che s’invidia ai Tedeschi, non già un
ingegno privilegiato, non già una dottrina che in ogni parte
sodisfaccia, ma quel felicissimo complesso di condizioni, mercé il
quale nessuna forza rimane inoperosa e nessuna va sprecata, perché
tutti lavorano, e ognuno profitta del lavoro di tutti, e nessuno
perde il tempo a rifar male ciò che è già fatto e fatto bene.
S’invidia la densità meravigliosa del sapere, per la quale è
assicurato, a ogni funzione intellettuale e civile, un numeroso
stuolo di abilissimi operaj; sì che solo il cospicuo merito potendo
aver fiducia di andar segnalato, l’interesse viene a confondersi, in
una spinta medesima, con lo zelo del vero e del buono, e ogni
lavoratore valendo di regola più che non richiegga l’ufficio che gli
può essere assegnato, contribuisce in mirabil modo a quella
esuberanza di pensiero e di coesione, onde si ha la ragion /XXXV/
sufficiente di ogni prodigio che in pace e in guerra sia da coloro
operato. S’invidiano così le predisposizioni generali, che rendono
infinitamente efficace l’azione degli uomini grandi, e portano a
quella oltrepotenza legittima, che non s’è peranco tutta mostrata, e
cui è doloroso vedere come uomini insigni non cessino fra noi di
contrapporre o un epigramma o un sillogismo. Che se quelle
condizioni sono più specialmente invidiate dai cultori delle scienze
storiche, ell’è tuttavolta un’invidia che non si scompagna mai dalla
speranza e dalla fede di poter raggiungere, emulare, e anche
superare in parte, quandochessia, la gente che ne è fatta segno;
laddove gli antagonisti, proclamando, per ultima ragione, che la
nostra gioventù non possa reggere al lavoro quanto può la gioventù
straniera, proclamano implicitamente la inferiorità indefettibile
della nostra patria, e vana e precaria larva la sua indipendenza
civile. Ma la gioventù italiana smentisce valorosamente
l’oltraggioso supposto, e attinge ormai, alle nuove o rinnovate
fonti del sapere istorico, con un’assiduità ostinata e geniale, che
supera le più ardite espettazioni.
[/40/ Ai numerosi frutti o tentativi, pei quali il lieto
rivolgimento già si manifesta alla pubblica luce, viene ora ad
aggiungersi l’Archivio glottologico italiano, opera collettiva e
periodica, la cui principal mira sarà di promuovere l’esplorazione
scientifica dei dialetti italiani ancora superstiti, sia col
raccoglierne materiali genuini e nuovi, sia col dar mano ad
illustrarli . Intorno ai quali dialetti ben /41/ /XXXVI/ furono già
spese, massime fra noi, non poche e assai nobili cure; e io spero
che l’Archivio, fedele in ciò al primo saggio che ora se /XXXVII/ ne
vede, non abbia mai a dimenticare o a negligere nessuno di quei
valorosi, la cui opera ha preceduto la nostra. Ma, dall’un canto, la
quantità del materiale sin qui raccolto, si per le fasi dialettali
che ancora durano e si per quelle che hanno loro precorso, deve
dirsi molto scarsa e povera, ove si consideri la infinita quantità
che ancora ne giace negletta; e dall’altro, il metodo scientifico ha
ancora gran bisogno che sia aumentato il numero de’ suoi proseliti,
com’egli medesimo ha ancora bisogno di perfezionarsi e progredire.
L’età dell’indagine fantastica è per vero omai superata anche in
Italia, malgrado gli strascichi inevitabili che ancora la ricordano;
ma nel periodo dell’indagine metodica, più o meno sicura, che a lei
è succeduto, si è non poche volte dovuto vedere, che alla molta
dottrina dei ricercatori mancassero apponto quegli ingredienti che
più ci volevano; e causa di nuove aberrazioni si è ancora fatta
quella che potrebbe dirsi l’ambizione storica, risorta con sembianze
mutate, e meglio conformi a ragione, ma tuttavolta fallaci, la quale
ora si manifesta specialmente per questo doppio modo: cansare il
latino, quando si cerca l’intima ragione delle voci o delle forme
romanze, per rappiccar queste direttamente alle rimote fonti
dell’Asia ariana, oppure ad una o più d’una favella dell’antica
Italia, che sia o s’imagini disforme, o almeno affatto divergente,
dalla lingua che ci sta dinanzi nella letteratura di Roma. Quanto
alla prima maniera, che si risolve nell’indomania, è probabile che
lo scrittore di queste linee, pel quale il sanscrito è il pane
quotidiano vero e /42/ proprio, possa apparirne un contradditore
bastantemente imparziale. Ora egli di certo non intende negare, a
priori, che nei nostri vernacoli si possan dare delle voci, per la
cui dichiarazione sia necessario, o ragionevole, il ricorrere
immediatamente all’antico esemplare asiatico del sistema ariano.
Sarebber voci, di cui risultasse perduto l’archetipo propriamente
italico, oppur greco, oppur celtico, e via dicendo, al /XXXVIII/
quale andrebbero altrimenti raccostate. Ma bisognerebbe imprima, con
un’arte che cesserà per avventura di star fra le impossibili, ma
impossibile è ancora, aver bene appurato a qual preciso filone
etnologico le voci in questione veramente spettino; poiché essendo,
come ognuno può ormai conoscere, ben disformi tra di loro i varj
riflessi che dell’unica parola primitiva si riverberano nelle
diverse favelle della famiglia indo-europea, e pur nelle diverse
fasi di una favella medesima, manca altrimenti ogni sicuro criterio
sul modo di confrontare o di raddurre quelle singole voci ad antiche
forme ariane dell’Asia. Poi, il vocabolario sanscrito è lo spoglio
pericoloso di una letteratura tre volte millennare; e ci vuole
un’opera, non punto facile, di epurazione e di ricostruzione, per
ottenerne forme di tal natura, che ci consentano ragionevoli
confronti con le europee; forme, vale a dire, che rappresentino, con
evidenza scientifica, il periodo od i periodi dell’unità delle genti
ariane. La verità pratica è finalmente, che l’indagator severo ha
per ora, e avrà per molto tempo, troppo di meglio da fare e da
scoprire, perché gli avanzi tempo o voglia di avventurarsi, comunque
vi si possa trovare preparato, all’improbo mestiere delle soluzioni
ipotetiche, le quali in sé contengano, alla lor volta, dei problemi
imaginarj. Quanto all’altra maniera, che si risolve nel paradosso di
voler che la base italica della parola romanza sia affatto rimota
dal latino dei soliti lessici e delle solite grammatiche, basterà
che si tocchi dei meno arrischiati suoi fautori; i quali, mentre
esagerano e frantendono le importanti verità che si vengono
scoprendo circa le diversità simultanee, o successive, che la
evoluzione storica della parola latina ha seco portato, non sembrano
accorgersi del fatto cardinale, per la cui virtù riesce appunto, fra
tant’altro, molta parte delle accennate scoperte, e /43/ consiste
nei saldissimi e diretti rapporti che la scienza ha ormai stabilito
e sempre meglio rassoda, per ogni lato dell’organismo glossico, fra
il latino dei soliti lessici o delle solite grammatiche e ciascuna
di quelle diverse favelle che diciamo romanze o neo-latine. Il
migliore argomento pel quale raffermiamo e dimostriamo i fenomeni
specifici del volgar latino, precursore immediato delle favelle
romanze, sta appunto /XXXIX/ nelle divergenze, che la scienza
perspicuamente avverte e comprova nell’antico fondo, frammezzo al
ragguaglio continuo e sicuro del latino classico co’ suoi succedanei
neo-latini. Chi sia affetto di codesto pregiudizio della molta
distanza fondamentale fra la base delle lingue romanze e il latino
delle lettere romane, pensi, per dir di un fatto solo, a darsi
ragione, obbedendo a’ suoi supposti, della fedeltà, già da noi
ricordata con diverso intento in questi stessi fogli (pp. 5 sg.),
per la quale un numero infinito di favelle neo-latine dà un rimesso
diverso della vocale classica, secondo che questa vocale fosse lunga
o breve; e se il meditare intorno a questo unico fatto non basta a
convertirlo, egli si dia ad altri studj. Una tendenza, tutt’altro
che irrazionale, ma non poco inopportuna, si avverte poi anche fra
coloro che studiano nei nostri dialetti col miglior metodo, e in
ispecie fra i giovani; la quale è di limitare soverchiamente
l’indagine, o di ostinarla intorno a singole e minute difficoltà,
che oggi pajono insuperabili, e potranno andarsene risolte, come da
sé medesime, per virtù di più larghe e ben più importanti conquiste.
A tale tendenza va in parte ascritto il mancarci tuttora i primi
contorni di una vera topografia dialettale della penisola e delle
regioni circostanti, e quindi ancora il non essersi bastevolmente
potuti riconoscere, pure fra i glottologi e gli etnografi di
professione, il valore e le attrattive dell’ampia tela istorica per
la quale si trasforma e si travolge la parola di Roma. Scoprire,
scernere e definire, a larghi ma sicuri tratti, gli idiomi e quindi
i popoli, che ben soggiacquero a quella potente parola, ma sempre
reagendo sopra di lei con maggiore o minor forza, per guisa che
ciascuno di loro la rifrangesse in diversa maniera, e rivivesse, in
qualche modo, sotto spoglie romane; rifar la storia di queste nuove
persone latine, esplorarne la genesi, gl’incrociamenti e /44/ le
propaggini; risalir così dall’una parte, ai fondamenti ante-romani,
e scendere, dall’altra, in sino a ricomporre e correggere la cronaca
di quelle età, che possiamo ancora dir moderne; raccogliere, in
questo largo e cauto lavoro, tesori infiniti per l’istoria generale
del linguaggio; ecco ciò che può sin d’ora, e deve volere, la
dialettologia romanza in generale e l’italiana in /XL/ ispecie. Ma
se a tali concetti si ispireranno coloro, che dànno a questi studj
la miglior parte delle loro forze, non è chi non vegga come sia
interminabile la serie dei lavori più circoscritti, che devono
costantemente accompagnare e seguire l’opera di chi s’industria
intorno a ricostruzioni di tal natura. Quindi l’Archivio non prepara
a quelli men liete accoglienze che a queste, e si rallegrerà di ogni
contributo, per modesto che sia, quando consti di cose nuove ed
accertate. Né i monumenti letterarj, che abbiano qualche importanza
per la storia della parola italiana, gli potranno essere meno
graditi della nuda suppellettile di voci, di forme, di locuzioni, di
motti. Ciò che l’Archivio deve affatto escludere, è solo quella
specie di lavori, nei quali si sbizzarisce intorno a sistemi o a
metodi nuovi non perché le cose ormai dimostrate non abbiano potuto
convertire coloro che li compongono, ma solo perché questi si sien
voluti sottrarre alla efficacia di quelle. Raccomandare inoltre, ai
collaboratori dell’Archivio, quella sobrietà nelle comparazioni di
ogni specie, senza la quale una siffatta serie di lavori si
risolverebbe per buona parte in una reiterazione continua, appar
cosa affatto superflua, poiché è troppo naturale ed evidente, che
non /XLI/ vi si debba addurre al confronto se non ciò che torni di
un’opportunità veramente specifica. Né occorre ricordare con molte
parole, quali sieno, sulle generali, le aspirazioni legittime di
ogni indagine italiana. Tenere, dall’una parte, di quella lucidezza,
di quella sapienza nell’economia e nella struttura del lavoro
scientifico, per le quali sono cosi grandi maestri i francesi; ma
piegar, dall’altra, queste virtù, sin dove occorre, a tutti quegli
spedienti, senza i quali è troppo difficile, e molte volte
impossibile, conseguir la densità e la potenza del lavoro tedesco.
Ma se l’Archivio vuol principalmente dedicarsi a sviscerare /45/ la
storia dei dialetti italiani ancora superstiti, non però egli si
asterrà dall’accogliere speciali studj anche sulle varie lingue
dell’antica Italia e pur sulle estranee che alla loro immediata
illustrazione possan giovare. Né trascurerà quegli idiomi stranieri
che sono ancora parlati da popolazioni italiane, e avrà confini
ancora più indeterminati per le notizie bibliografiche ch’egli si
propone di ammannire. Dalla latitudine del campo, non dovrà però mai
derivare alcuna bizzarra mescolanza nella disposizione dei frutti
che si riesca a raccogliervi, od alcun ostacolo alla loro migliore e
maggior diffusione. Così, a cagion d’esempio, si formerà
prossimamente un volume, dedicato per intiero a studj celtici (nel
quale saranno contenute tutte le glosse iberniche del Codice
Ambrosiano); e il solerte editore ha già dal canto suo annunziato,
che ciascun volume, e anzi ciascun fascicolo dell’Archivio, sarà
posto in vendita anche separatamente.
Rimane, per ora, che mi sia concesso ringraziare, dal vivo
dell’animo, i valorosi amici che hanno voluto venir meco in questa
impresa. Che se altri io qui lascio di nominarne, per non turbar la
loro bella modestia, ed altri per non offender quella che io dovrei
avere, nessun riguardo può trattenermi dal rendere particolari
grazie a Giovanni Flechia, il quale, veramente, avrebbe egli dovuto
parlare in questo luogo, siccome colui, che, a tacer di altre sue
preminenze, è il vero e l’acclamato antesignano di quanti siamo a
studiare i dialetti dell’Italia.
G. I. A.
Milano, 10 settembre 1872.